Pubblicato da Varese Noi il 21 marzo 2020, 16:32
Il toccante messaggio dalla terapia intensiva del Circolo: «Ai parenti di chi soffre noi dobbiamo dire grazie»
Un messaggio toccante. E’ quello che, ancora una volta, arriva dalla terapia intensiva dell’ospedale di Circolo di Varese. A lanciarlo è il dottor Davide Maraggia, che sulla pagina Facebook dell’Asst Sette Laghi ha voluto fare una riflessione su uno degli aspetti più disumani di questo virus: l’impossibilità dei parenti del paziente di stare vicino al loro congiunto nella battaglia contro l’infezione.
La terza settimana di confronto con gli effetti della diffusione del Coronavirus nell’Ospedale di Varese porta inesorabilmente a riflettere. Lasciamo da parte gli aspetti che tutti hanno, o dovrebbero aver compreso come il sovvertimento dell’assetto dei reparti ospedalieri, delle loro abituali attività, della composizione degli organici e e dell’enorme sforzo organizzativo che ne è alla base.
Tutti ormai hanno capito che siamo chiamati a fronteggiare una emergenza sanitaria di spessore tale da scompaginare ogni reliquato di quotidianità.
Da questo punto di vista possiamo sentirci deboli e forti allo stesso tempo. Deboli perché il “nemico” si può annidare ovunque e dispiegare subdolamente i suoi effetti, e perché sembra voler soverchiare ogni ostacolo gli si frapponga. Forti perché i mezzi di cui per fortuna disponiamo ci permettono di porre in essere misure, procedure, di aumentare attività, di dispiegare mezzi.
Ma tutto questo comprende una sfera più profonda, meno visibile, più intima.
La sfera dei congiunti dei nostri pazienti.
La gran parte delle persone con polmonite COVID-19 ricoverate attualmente nelle Terapie Intensive del Circolo provengono da altre città, Bergamo,Crema, Cremona, Vigevano, Seriate, Milano.
Queste persone un pomeriggio o una sera di due settimane fa hanno cominciato ad avere difficoltà nella respirazione. I loro familiari hanno chiamato i soccorsi. Un’ambulanza è arrivata sotto casa e ha caricato il nonno, il padre, la moglie, il marito, il figlio e lo hanno trasportato verso un ospedale. Quello è stato l’ultimo momento in cui si sono visti, in cui hanno incrociato lo sguardo, scambiato qualche parola. Qualcuno ha portato con sé il cellulare e con questo è riuscito a mantenere un contatto con il proprio mondo. Ancora per un poco.
Poi è venuto il momento in cui il respiro si è fatto sempre più corto, i medici le hanno, o gli hanno detto che sarebbe stato necessario indossare una specie di scafandro per aiutare la respirazione. Poi anche questo non è più bastato. Qualcun altro li ha addormentati, intubati e si è dato da fare per trovare un posto per loro in una Terapia Intensiva, di un’altra città, lì tutte le risorse erano esaurite.
Un altro viaggio in ambulanza, qualche volta per più di cento chilometri.
E poi la malattia, severa, lunga, la degenza in Terapia Intensiva.
Il colloquio quotidiano con i parenti dei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva è sempre stato un momento centrale della giornata. Era il luogo in cui trasmettersi reciprocamente, fra famiglia e curanti, tutte le informazioni, anche le più minute.
La famiglia rappresentava il malato come Persona a tutto tondo, con il suo vissuto e la sua pienezza, sollevandolo dalla condizione di un corpo che giace in un letto collegato a macchine da tubi e fili.
I curanti avevano modo, pian piano, di rendere partecipi e consapevoli i congiunti del malato della sua storia clinica, breve, lunga, soddisfacente, tragica. Guardandosi negli occhi e stringendosi la mano.
Questo ora non è più possibile. Dopo quell’ultimo sguardo, quell’ultima parola salendo in ambulanza o entrando in Pronto Soccorso, più niente.
Città lontana, ospedale sconosciuto, telefoni, centralini.
In questi giorni è già stato necessario dare cattive notizie a figli, a mogli, a nipoti al riguardo dei loro cari ricoverati nel nostro Reparto.
Tutto questo al telefono, solo al telefono.
Un compito che sarebbe stato drammaticamente difficile se non avessimo trovato dall’altra parte del filo persone semplicemente splendide.
Mi sento di esprimere la mia ammirazione ed elogiare pubblicamente queste persone. Tutte, proprio tutte, ci hanno dato fiducia, hanno compreso che il nostro impegno per il loro caro era massimo e che il loro congiunto sarebbe stato trattato con tutta la cura e il rispetto possibili, in qualunque modo sarebbero andate le cose.
Ci hanno ringraziato, sempre al telefono, anche al momento delle comunicazioni più dolorose.
Siamo noi che ringraziamo queste persone che non abbiamo potuto conoscere guardandoci negli occhi, che non vedremo mai, che ci hanno onorato della loro fiducia.
Davide Maraggia
Terapia Intensiva Generale Ospedale di Circolo di Varese
Varese, 21 Marzo 2020
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