Un monaco benedettino diventato arcivescovo di Milano; ecco, in sintesi, la vita del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, beatificato ventun’anni fa da papa Giovanni Paolo II il 12 maggio 1996.
Fu arcivescovo di Milano dal 1929 al 1954. Governò la diocesi in tempi difficili, prendendo come modello uno dei suoi predecessori più illustri, San Carlo Borromeo. Si dimostrò assiduo nell’effettuare le visite pastorali che svolse ben cinque volte durante il suo episcopato.
Nato a Roma il 18 gennaio 1880 da Giovanni e Maria Anna Tutzer, Ildefonso Schuster fu battezzato il 20 gennaio dello stesso anno. Rimasto presto orfano di padre, entrò nello studentato di S. Paolo fuori le mura, dove ebbe come maestri il beato Placido Riccardi e don Bonifacio Oslander che l’educarono alla preghiera. Negli anni successivi si laureò in filosofia al Collegio Pontificio di Sant’Anselmo a Roma, divenne monaco e il 19 marzo 1904 venne ordinato sacerdote in San Giovanni in Laterano.
A soli 28 anni già insegnava ai novizi: grande fu la sua passione per l’archeologia, l’arte sacra, la storia monastica e liturgica. In seguito divenne procuratore generale della Congregazione Cassinese, priore claustrale e infine abate ordinario di San Paolo fuori le mura (1918).
Il 26 giugno 1929 fu nominato da papa Pio XI arcivescovo di Milano; ebbe inizio così il suo ministero di vescovo nella Chiesa Ambrosiana. Prese come modello il suo predecessore, San Carlo Borromeo: seguendo l’insegnamento e l’esempio dell’illustre precursore, Ildefonso Schuster si dimostrò assiduo nell’effettuare le visite pastorali nella diocesi che nei venticinque anni del suo episcopato svolse ben cinque volte. Questi venticinque anni, si collocano in uno dei periodi più delicati della vita della Chiesa milanese, dell’Italia e dell’Europa: sono anni segnati da profondi mutamenti che interessano contemporaneamente il piano politico, sociale ma anche la vita ecclesiale.
L’opera spirituale e pastorale
Numerose sono le sue lettere al clero e al popolo, le minuziose e dettagliate prescrizioni specialmente in ordine al decoro del culto divino, i frequenti sinodi diocesani e i due congressi eucaristici. La sua presenza tra il popolo fu continua e costante. Ristrutturò, per incarico di Pio XI, i seminari milanesi mediante la costruzione del Seminario Teologico e Liceale di Vengono, inaugurato nel 1935. Schuster governò la Diocesi in tempi molto difficili per Milano e per il Paese. Anziano e malato, si ritirò nel seminario di Venegono, da lui fatto costruire come un’abbazia in cima ad un colle, mistica cittadella di preghiera e studio, dove si spense il 30 agosto 1954. Le ultime sue parole, rivolte ai suoi seminaristi furono: “ Voi desiderate un ricordo da me. Altro ricordo non ho da darvi che un invito alla santità. La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione, ma di fronte alla santità, ancora crede, ancora si inginocchia e prega. La gente pare che viva ignara delle realtà soprannaturali, indifferente ai problemi della salvezza. Ma se un Santo autentico, o vivo o morto, passa, tutti accorrono al suo passaggio.
Durante il periodo bellico sostenne attivamente la Carità dell’Arcivescovo, dando il primo incarico di responsabile a Carlo Bianchi, il quale aveva avuto l’idea da una sua lettera pastorale. Carlo Bianchi morirà a Fossoli, fucilato.
Alla caduta della Repubblica Sociale Italiana promosse un incontro in arcivescovado tra Benito Mussolini e i rappresentanti partigiani, nel tentativo di concordare una resa senza spargimento di sangue. Propose anche a Mussolini di fermarsi in arcivescovado, sotto la sua protezione, per poi consegnarsi agli alleati. Il duce però rifiutò, preferendo tentare la fuga. Quando il 29 aprile 1945 i corpi fucilati di Mussolini e degli altri gerarchi fascisti furono appesi in piazzale Loreto, Schuster informò Riccardo Lombardi, prefetto su nomina del Comitato di Liberazione Nazionale, che egli stesso «in porpora» avrebbe dato la benedizione alle salme «perché si deve aver rispetto di qualsiasi cadavere». Allo stesso modo il 10 agosto 1944, quando i tedeschi avevano trucidato quindici partigiani e avevano abbandonato i corpi nello stesso luogo, Schuster aveva scritto all’ambasciatore tedesco chiedendo che i cadaveri fossero rimossi, «altrimenti sarebbe andato lui a trasportarli». In quell’occasione, essendogli stato negato il permesso di uscire ed essendo quindi impossibilitato a ufficiare la benedizione, si curò di inviare l’allora diacono Giovanni Barbareschi per la benedizione delle salme.
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